Le antiche usanze pasquali dell’ Isola sono circoscritte alla processione detta degli “Apostoli” che si svolge il Giovedì santo e a quella detta dei “Misteri” che ha luogo il Venerdì santo, poichè si sono estinte altre remote e ricche consuetudini. Tra queste ad esempio “U’ chèngio a porta”, il calcio dato alla porta della chiesa dal suddiacono con il piede della Croce a imboleggiare la richiesta di Gesù di entrare in Gerusalemme, e le “Zeddose” (ossia le donne vergini) che partecipavano, la domenica delle Palme, ad un corteo penitenziale che muoveva dalle chiese dell’isola e si concludeva alla Terra Murata. Un altro rito suggestivo era rappresentato dai “Remmùre” prodotti dai fedeli battendo le mani sui banchi di legno delle chiese la sera del mercoledì Santo durante la lettura dell’ufficio delle tenebre. Alla recita di ogni salmo si spegneva una delle sette candele fino a che la chiesa piombava nell’oscurità assoluta. I “Remmure” ricordavano il terremoto che scosse la terra quando Gesù spirò.
Ciò che è rimasto invariato nelle celebrazioni della settimana Santa è il coinvolgimento emotivo dei procidani fin dalla domenica delle Palme quando si recano in chiesa per la messa portando con sé un rametto di ulivo o di palma con valore propiziatorio. Il pomeriggio, poi, gli isolani hanno l’abitudine di recarsi al cimitero per lasciare sulle tombe dei parenti morti i rami benedetti in segno di pace.
La processione del Giovedì Santo degli Apostoli incappucciati, confratelli del Santissimo Sacramento, meno famosa dei “Misteri”, è organizzata dalla confraternita dei Bianchi. Muove dal suo oratorio dopo la messa in “coena Domini” (ossia l’ultima cena) e la celebrazione della lavanda dei piedi degli apostoli da parte del prete officiante e dopo che i suoi partecipanti hanno consumato una cena a base di legumi, pesci arrostiti, agnello e finocchi.
I dodici partecipanti, che simboleggiano i dodici apostoli, muovono in processione nel tardo pomeriggio lungo le strade strette dell’isola incappucciati, vestiti di bianco con una corona di spine sul capo e ciascuno con una croce nera di legno sulle spalle, preceduti e scortati da un figurante detto “centurione” romano, e seguiti dal governo in carica, dai cerimonieri e dagli altri confratelli.
Le soste della processione vengono effettuate presso le chiese che s’incontrano lungo il percorso e rappresentano la visita ai “sepolcri”. Qui gli apostoli si accostano all’Altare maggiore, poggiano in terra la croce e si inginocchiano. Il priore batte quattro volte a terra il bastone dando così inizio all’adorazione presso l’altare della deposizione del Santissimo Sacramento. Dopo aver ascoltato l’omelia ed intonato un antico canto liturgico, altri quattro colpi di bastone annunciano la fine della visita e gli apostoli si allontanano per raggiungere la chiesa successiva.
La processione dei “Misteri”, invece, decisamente più famosa della prima, rappresenta uno dei momenti più intensi dei riti della Settimana Santa a Procida e coinvolge a vario titolo e con funzione catartica, l’intera popolazione isolana, soprattutto quella giovanile.
L’intera popolazione è in preda all’ ”ansia” della notte che precede il venerdì santo, un’ansia razionalmente immotivata ma presente e viva in ogni isolano, anche in quelli che navigano e che vivono il “patos” della passione lontani dalla terra natia con il corpo , ma vivi e presenti con lo spirito e con il cuore fino all’ora in cui ha termine la processione, intorno alle ore 13.
Le prime notizie di questa processione, organizzata dalla congregazione dell’Immacolata Concezione fondata dai Gesuiti nel 1629 detta dei “Turchini” (dal colore della tunica che indossano i confratelli), risalgono al 1688. A quell’epoca il rito dei Misteri aveva scopi di divulgazione della dottrina cristiana, prevedeva un corteo di auto flagellanti che si snodava per le vie dell’isola. La manifestazione, però, degenerò in toni di eccessiva spettacolarità e crudezza e fu trasformata. Dal 1728 essa si svolge per le strade dell’isola recando in processione una stupenda statua lignea a dimensione naturale raffigurante il Cristo morto scolpita a Napoli da Carmine Lantriceni nel 1728, con al seguito i maestri della confraternita.
La processione formata da centinaia di persone tutti maschi, vestiti della classica “veste di confratello”, inizia di primo mattino dalla parte più alta dell’isola, la Terra Murata, con la “chiamata”dei partecipanti, da parte confratello più anziano, secondo un ordine che si perde nella notte dei tempi.
Il corteo è aperto da un lacerante, cadenzato e prolungato squillo di una tromba, una buccina, strumento in uso presso i Romani, seguito dal suono di tre colpi di tamburo percosso con tutto l’impeto possibile a significare la tristezza del momento per la morte del Cristo.
Il significato vero del suono della tromba risale ai tempi dei Romani in Palestina, quando la usavano nei cortei per annunciare al popolo la condanna a morte di una persona.
Seguono una miriade di “misteri” ossia rappresentazioni plastiche di scene del Vecchio Testamento e del Vangelo, spesso di ottimo livello artistico, alcune fisse altre variabili di anno in anno, preparate artigianalmente con passione e sacrificio dai giovani del posto nel corso della quaresima e portate a braccia o a spalla dagli stessi. Infine seguono le statue del Cristo Morto e dell’Addolorata -appartenente al 700 napoletano - la banda musicale che esegue famose marce funebri capaci di scuotere le fibre più segrete dell’anima, le autorità religiose, civili e militari e dal pubblico.
Altri simboli caratteristici che compongono il “corteo funebre” sono la scritta S.P.Q.R, un acronimo che si riferisce alla frase latina che rappresenta il nome ufficiale dell’Impero romano: “il senato e il popolo romano”. Si notano poi l’immagine del sole e della luna che sono il significato profondo della ribellione della natura per la morte del figlio di Dio, allorquando il buio iniziò a calare lentamente sulla terra e fu sconvolta da un fortissimo terremoto, così come narra l’evangelista Matteo; il cofano e la zappa, indicano gli strumenti in uso per scavare e raccogliere il terreno della fossa del defunto;le catene e le funi trascinate sul selciato, ricordano il momento della cattura di Gesù e prende spunto dal Vangelo di Matteo in cui si racconta l’arresto del Cristo al pari della cattura di un delinquente; gli “angioletti”, bambini in tenerissima età vestiti di nero, non avendo nessun riferimento storico rappresentano una “coreografia” molto suggestiva della sacra rappresentazione.
La sera del Venerdì santo, infine, per il corteo di ritorno della statua del Cristo alla chiesa dell’ arciconfraternita dei turchini ed a commemorazione dell’agonia, ha luogo una suggestiva e commovente fiaccolata - la cosiddetta “ torceata ri fratieddi” - cioè la fiaccolata dei confratelli della congregazione dei “turchini”.
Nella settimana santa e più in generale nel periodo di quaresima, anche la gastronomia procidana segue un rigidissimo protocollo che bandisce la carne dalla tavola in modo quasi assoluto.
La vocazione fortemente marinara dell’Isola a prediligere ai suoi abitanti, soprattutto il giorno del Venerdì santo, l’usanza di mangiare il cefalo arrosto, la frittura di paranza con insalata di polpo o verde o di limoni ed arance, nonchè gli immancabili, famosi e gustosi carciofi di produzione locale.
Eccezione, invece, per la domenica di Pasqua ove la tradizione vuole che si consumi il coniglio, l’agnello, e la pasta con il sugo “tirato”, cioè un ragù denso e ricco.
Seguono i dolci, tra cui spicca la classica pastiera napoletana ed il “casatieddo” che non ha nulla a che vedere con quello rustico conosciuto a Napoli, cioè il casatiello. Questo, invece, è un dolce un po’ spigoloso, nè morbidissimo né particolarmente accattivante, impreziosito da uova sode la cui preparazione, particolarmente meticolosa, è un vero rito che occupa la casa per ben due giorni ed una notte. Protagonista indiscusso di questo dolce , una volta cotto nel forno a legna, è “il criscito”, la pasta madre che le massaie un tempo facevano in casa e che oggi, molto probabilmente, chiedono al panettiere.
Il lunedì in albis, come quasi tutti gli italiani, i procidani usano fare la gita fuori porta che qui viene chiamata “pascone”. Esso rappresenta l’occasione per riunire parenti e gli amici in un prato, o in un luogo boschivo ameno e poco frequentato dalle auto, oppure in una cantina o magari in barca se il tempo lo consente, per consumare in un sorta di “agape” fraterna, i “ruoti” del “casatieddo” ma anche per accompagnare, con un buon bicchiere di vino locale, le fave e la pancetta con formaggio pecorino ovvero i finocchi freschi.