Ischia News ed Eventi - Lo stillicidio della soppressione della Provincia

Lo stillicidio della soppressione della Provincia

Il ministro degli Affari Regionali, Graziano Delrio

Società
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E’ uno stillicidio (“gocciolamento o deflusso lento e continuato”– Devoto-Oli), un mortificante stillicidio per amministratori-politici di “terzo livello”, per migliaia di dipendenti pubblici da dirigenti ad operai semplici, questo dibattito infinito che dura da quarantatre anni sulla soppressione dell’Ente Provincia. Oggi lunedì 28 ottobre 2013 “La Repubblica”, il più diffuso ed autorevole quotidiano italiano, esce con il titolone di prima pagina a cinque colonne: “Province, abolite entro l’anno” come “civetta” di prima pagina per l’intervista al Ministro per gli affari regionali e le autonomie, Graziano Delrio, democratico “renziano”, che annuncia che nella prossima primavera non saranno rinnovati i Consigli Provinciali,che le Province nelle more della riforma costituzionale che le cancellerà dalla Carta, saranno enti di secondo livello con una “assemblea dei sindaci” che deciderà quali funzioni residue dovrà gestire su delega dei Comuni mentre sorgeranno in 9 aree urbane del Paese le “Città Metropolitane” fra cui Napoli al posto dell’ente Provincia. Secondo Delrio questa specie di soppressione farà diminuire la spesa pubblica e determinerà una mini-riforma degli enti locali – l’ennesima dal 1990 con la legge Gava n.142 – con “Unioni di Comuni” ed “enti impropri”. L’edilizia scolastica delle superiori passerà ai Comuni e le strade invece saranno “delegate” alla Provincia dai Comuni come se fosse un’“agenzia”, qualcosa com’era prima l’ANAS.

E’ una mini-riforma “decretata” e non “legislativa” farraginosa e contorta che invece di fare chiarezza introduce ulteriori incertezze ridicolizzando il “cesarismo” o “presidenzialismo” a livello locale istituito con la legge del 1993 sull’elezione diretta del sindaco e del presidente della Provincia perché il presidente della “nuova” Provincia sarà eletto “indirettamente” dall’assemblea dei sindaci.

Questa farraginosa mini-riforma riceve – a detta del Ministro – resistenze sia nel PD sia nel PDL, i due neo-partiti del governo Letta ma il Governo andrà avanti.

Tutto questo perché il Parlamento da quarantatre anni – è morta la Prima ed è in agonia la Seconda Repubblica – con i suoi componenti è incapace di accogliere l’ovvia osservazione del repubblicano Ugo La Malfa che quando furono istituite le Regioni dichiarò che bisognava abolire le Province, che non era possibile né economico mantenere tre livelli di potere locale, che sarebbero nate inevitabilmente sovrapposizioni di compiti, richieste di funzioni, conflitti di competenza. Appello inascoltato quello di Ugo La Malfa semplicemente perché i maggiori partiti di allora – la DC, il PSI, il PCI – pur riconoscendo giusta la proposta del piccolo partito repubblicano non potevano accoglierla perché avevano problemi di “sistemazione” dei loro dirigenti di “terzo livello”.

Da allora, dal 1970 con l’istituzione delle Regioni, non solo le Province hanno perso tutti i poteri qualificanti di ente locale ma hanno avuto classi politiche dirigenti costituite o da giovani che volevano fare carriera per andare poi alla Regione o al Parlamento o da anziani amministratori comunali che ricevevano il premio alla loro lunga carriera locale. In termini di lottizzazione partitica del “manuale Cencelli” la Provincia era il “contentino” che i partiti assegnavano ai trombati alla Regione o al grande Comune, come quello di Napoli, o al Parlamento.

I politici di terzo livello hanno cambiato casacca con la Seconda Repubblica ma hanno fatto resistenza per il loro “posto” esattamente come i loro precursori.

L’unica speranza che si può nutrire oggi è che il Parlamento sulla scorta della riduzione della spesa pubblica sia capace di una riforma costituzionale abolendo semplicemente la Provincia dalla Costituzione e assegnando le residue competenze amministrative ai Comuni mentre alla Regione deve essere completamente affidata l’approvazione di Piani Urbanistici che siano definitivi.

Proprio in materia di Programmazione c’è il grande fallimento della Provincia. Ai sensi della legge 142 del 1990 la Provincia doveva approvare il Piano Territoriale di Coordinamento che avrebbe dovuto essere un Piano Generale ai quali i Comuni dovevano ottemperare. Le Province o non l’hanno fatto o se l’hanno fatto non hanno ricevuto sostanziale approvazione dalle Regioni o peggio ancora dalla Soprintendenze per le aree vincolate. Così la Pianificazione è diventata un eterno filo di Arianna senza trovare in questo enorme labirinto di competenze spezzettate una via di uscita.

Fallita la competenza in materia di Pianificazione alle Province sono state delegate funzioni amministrative prima esercitate dallo Stato come i Centri per l’Impiego ex-collocamenti che sono stati ridotti a semplici strutture burocratiche per la certificazione della disoccupazione e della sua durata che con estrema faciltà poteva essere svolta anche dallo stesso INPS chiamato all’erogazione dell’indennità di disoccupazione mentre le cosiddette “politiche attive del lavoro”– l’eufemismo con il quale si indicano le offerte di lavoro per i giovani ed i disoccupati adulti – si sono rivelate impossibili in periodo di drammatica crisi economica con una terribile inadeguatezza delle offerte di lavoro da parte delle imprese e buon ultimo questa “ricerca di personale” non è stata assegnata in maniera esclusiva ai Centri per l’Impiego poiché sia le imprese ed addirittura la scuola potevano essere “collocamenti”.

Credo quindi – anche per esperienze professionali dirette – che sia fallito il tentativo di rilancio della Provincia avviato con la legge 142/90 e confermato con la legge 81 del 1993 per l’elezione diretta del Presidente inserita forse per rivitalizzare l’interesse dei cittadini verso il cosiddetto “ente intermedio”. Quasi umilianti sono stati i tentativi dell’Unione delle Province d’Italia (UPI) per catturare l’attenzione dei cittadini e dei media verso la Provincia. Tutti i poteri locali che contano sono stati affidati alla Regione che non ha svolto un ruolo di legislazione e di programmazione ma di enorme amministrazione riservandosi la funzione perfino di concedere contributi finanziari alle Parrocchie.

E’ tempo quindi di porre fine a questo stillicidio anche per i numerosi dipendenti che vivono da anni questa condizione frustante di lavorare in un ente pubblico posto incessantemente in discussione per la sua utilità. Ma è anche tempo di una seria Riforma Costituzionale della Repubblica che dovrebbe partire dall’alto e poi estendersi al basso e non viceversa e così si dovrebbe abolire il Senato ed avere un sistema unicamerale sia per la riduzione di spesa pubblica sia soprattutto per efficienza del potere legislativo. Ma anche questa riforma trova evidenza ma resistenze. Quando si parlava già quaranta anni fa di abolire il Senato l’allora suo Presidente, Amintore Fanfani, diceva che era impossibile perché “nessuna Camera voterà mai l’abolizione di se stessa”.

La “Casta” è sempre esistita.