La politica locale non è altro che lo specchio di quella nazionale, in peggio. Lo scenario nazionale vede oggi politici e ministri rilasciare dichiarazioni in mezzo alla strada, rincorsi dai giornalisti alla ricerca di battute, risposte, allusioni su temi gravi della Repubblica che richiederebbero invece parole meditate e ponderate.
La mia generazione — quella del ’68 — è stata educata alla misura della Parola, sia da parte dei politici che, di conseguenza, dei giornalisti. Negli anni ’70-’80 del Novecento, l’accusa più frequente rivolta ai politici era quella di parlare “politichese”: un linguaggio tecnico, da addetti ai lavori, spesso incomprensibile al grande pubblico.
Eppure, ricordo con ammirazione gli interventi di Aldo Moro — sempre per iscritto, mai a braccio — densi di simboli e metafore, come la celebre espressione delle “convergenze parallele” che annunciava l’avvicinamento della DC verso il PCI. O ancora Francesco De Martino, segretario del PSI, che parlava di “non delimitazione della maggioranza” e di “nuovi e più avanzati equilibri politici” per indicare, anche lui, un'apertura verso il PCI, questione centrale degli anni ’70.
Rimpiango quel linguaggio, perché era colto. Chi partecipava alla politica, o la commentava sulla stampa, doveva avere cultura oltre che passione civile. La funzione della stampa politica era stimolante perché ascoltata dai politici dell’epoca. Nessuno rincorreva Moro o De Martino per strada per strappar loro una battuta.
Quello stile si rifletteva anche sul piano locale. La stampa locale degli anni ’70 — quella dove sono nato e cresciuto — voleva emulare quella nazionale per qualità. Ricordo l’ammonimento del prof. Edoardo Malagoli, in occasione del numero 300 del Settimanale d’Ischia: una stampa locale “minore” solo per area di diffusione, non certo per qualità. Questo è stato il principio guida di tutta la mia vita professionale, rendendomi indifferente ai dileggi del politico di turno o dell’analfabeta invidioso.
Il mio impegno è sempre stato partire dai fatti, studiare le leggi, scovare le possibilità. Un giornalismo di annuncio, dove la denuncia era purtroppo necessaria, ma mai pretestuosa: solo quando i fatti la rendevano inevitabile.
La politica di programmazione economica, anche a livello locale
Sarà stata la mia formazione economicistica — ragioniere e studente di Economia e Commercio — che mi ha portato a legare il mio giornalismo alle leggi dell’economia, nel quadro costituzionale della Repubblica. Mi sono appassionato alla Programmazione economica, quella “terza via” tra socialismo democratico e liberalismo di sinistra che, per come la intendo, sono in fondo la stessa cosa. Ecco perché mi ritengo “socialista” come Carlo Rosselli: inscindibilmente legato al liberalismo.
Solo una minoranza del PSI, per circa ottant’anni, si è sentita così. Questo è stato il vero dramma storico del partito, ancor prima della deriva craxiana.
La Programmazione era la terza via. Fu annunciata da Antonio Giolitti, Giorgio Ruffolo, Giorgio Foa e Paolo Sylos Labini negli anni ’60, e si sarebbe dovuta trasferire anche negli enti locali. Era il punto centrale. Non è stato fatto, anche se lo abbiamo incessantemente predicato per oltre cinquant’anni sulla stampa locale della nostra isola d’Ischia.
Se oggi dovessimo fare la Storia sui “se”, potremmo affermare con certezza che, se avessimo approvato e messo in esecuzione il Piano Regolatore Generale (PRG) del prof. Corrado Beguinot del 1968 — 57 anni fa — anche terremoti e alluvioni sarebbero stati meno devastanti, meno sanguinosi.
La Storia Economica si consegna alla Giustizia per l’interpretazione, ma per lo studioso gli avvenimenti vanno letti nella loro dimensione storica. E in questo caso, la condanna è inequivocabile: le classi politiche di tutti i livelli sono colpevoli degli ultimi sessant’anni.
Riscoprire i vecchi PRG
Se davvero si crede nello sviluppo ordinato, economico e sociale nel capitalismo avanzato, allora non si può che ripartire dalla Programmazione “imperativa”.
Dopo il terremoto del 21 agosto 2017 — 134 anni dopo quello del 28 luglio 1883 — la Ricostruzione doveva partire dal vecchio PRG del 1983, mai applicato. Lo scrissi e sostenni nel primo numero de Il Continente, nel gennaio 2019, con l’articolo “Casamicciola, dove l’acqua è vita” (pp. 12-13). La proposta era chiara: partire dalla “ricostruzione possibile” attraverso il vecchio PRG, ponendo al centro una grande opera pubblica, a partire dalla nuova utilizzazione del Pio Monte della Misericordia.
Un progetto già delineato nel numero 2 de Il Continente, aprile 2019, con il piano dell’arch. Domenico De Siano (pp. 12-16), e con chiari riferimenti legislativi: l’art. 120 del TUEL e il DPR 327/2001 sugli espropri per pubblica utilità. L’art. 120 è particolarmente innovativo, poiché prevede espropri per aree “dismesse”, cioè ridotte a macerie, non più valutate a prezzo di mercato. È qui l’importanza di questo articolo e della Società di Trasformazione Urbana (STU).
L’alluvione del 22 novembre 2022 avrebbe dovuto accelerare questo percorso. Non lo ha fatto. Eppure, quei due numeri de Il Continente restano documenti storici di un’analisi, di uno studio, di una strada maestra.
Sono assolutamente convinto che fosse la strada giusta.
Giuseppe Mazzella
Il Continente, 5 luglio 2025