“Se hai fegato aggiungiti alla compagnia e vieni ad attendere l’alba con noi a Santu Nicole”,la perentorietà di Franco Iacono non ammetteva tentennamenti, d’altro canto mi ero fatta la fama di uomo dalle emozioni forti e dalle imprese defatiganti per cui non me la potevo svignare adducendo un qualsiasi motivo ad impedimento. Ho subito precisato che non sarei salito a dorso di mulo perché l’unica volta che feci questa esperienza, molti anni fa, stetti per diversi giorni a gambe divaricate per dei lancinanti dolori ai muscoli dell’interno coscia.
“Non vi sono muli a sufficienza, siamo una trentina e forse più, il rendez-vous è al castagneto dopo La Quiete, ore venti” precisò Franco. E così ci siamo ritrovati puntuali e pronti alla… scalata dell’Epomeo. Non vi racconto come erano combinati gli esursionisti in fatto di equipaggiamento: si andava dai pantaloni alla zuava con scarponcini ed alpenstock alle tenute da caccia con pantaloni di velluto e giacchettoni, giubbini, pinocchietti, jeans, ke way, corpetti, cappellacci e cappellini… ed, invece, io e la mia consorte in abiti leggeri ma con una provvidenziale coperta ripiegata nel borsone.
Abbiamo preso di petto la salita attraverso quei camminamenti naturali scavati nelle pareti tufacee dall’andirivieni dei muli, dalle precipitazioni meteoriche (sì si dice proprio così, intendendo tutti i fenomeni di trasferimento di acqua allo stato liquido o solido dall’atmosfera al suolo -pioggia, neve, grandine-) e dall’impeto dei venti. Il vociare allegro degli scalatori andava affievolendosi a mano a mano che la salita si faceva più dura fino ad essere soppiantato da un intenso ansimare e da sbuffi oltrechè da sonori lamenti. Un napoletano che chiudeva la fila ha bisbigliato “ma chi mi ha cecato”… Giunti all’eremo in un buio quasi completo, solo il chiarore lunare ci teneva compagnia, ci siamo stravaccati per terra per un breve riposo e per asciugare il sudore che colava copioso nonostante la serata fresca. Franco per farsi perdonare ha tirato fuori da una borsa termica un buon Pietratorcia bianco offrendo una sorsata di vino a tutti (aveva capito che bisognava risollevare il morale della truppa ed impedire il serpeggiante desiderio di diserzione che si faceva sempre più strada). Ci siamo seduti in tondo ed abbiamo dato fondo alle nostre provviste scambiandoci fette di rustici, panini variamente imbottiti, casatielli, pizze di maccheroni, dei fichi con del prosciutto ed un dolce cantalupo, a chiudere, errore macroscopico, un cocomero, di una decina di chili. Avremmo misurato più avanti la portata di un simile sbaglio. Incamerate proteine, vitamine e zuccheri la compagnia ha preso quota e giù aneddoti, barzellette, all’inizio castigate ma più appresso spinte ed addirittura audaci, incassate senza batter ciglio dalla nutrita presenza femminile. Anzi a ridere di gusto, quanto più salaci si facevano i racconti, erano proprio le Signore. Le luci delle torce da campo piazzate in posizioni strategiche illuminavano la scena con un simpatico gioco di chiaroscuri e con la proiezione di ombre smisurate. Verso mezzanotte ho sentito un brusio, come di scambio di informazioni a voce sommessa, ed ho notato uno strano modo di guardarsi intorno. Ho realizzato subito l’ampiezza del problema causato dalle eccessive libagioni e dal cocomero che ha una spiccata capacità diuretica. Ho preso una torcia ed effettuato un sopralluogo quindi, ritornato tra gli amici escursionisti e, balzando su un masso, mi sono così espresso: “Autorevoli amici vi sono funzioni inalienabili e non delegabili che ci rendono democraticamente eguali, per cui gli uomini si possono accomodare a destra e le donne a sinistra, non accalcatevi i luoghi sono ampi ed asciutti, rispettate la fila”, qualcuno volendomi fare un complimento sussurrò:”Peppino è un uomo d’ordine”. Solo alla fine scorsi quel napoletano che si era lamentato per l’asprezza della salita correre con le braghe in mano verso sinistra, “ah -lo redarguii- lei deve andare a destra”, “mi perdoni -si scusò bisbigliando- ma ho una prostata esuberante che mi consiglia la posizione accoccolata”… Mi sovvenne quel brocardo latino ‘Nemo ad impossibilia tenetur’ (nessuno è tenuto a fare cose impossibili -come quella di mingere in piedi-). “Ne ha facoltà” sentenziai… Alleggeriti dai gravami naturali la stanchezza ci avviluppava nelle sue spire mentre Morfeo era acquattato tra massi e spuntoni di rocce pronto ad accoglierci tra le sue braccia. L’odore acre di due mezzi toscani mi consigliò di traslocare, cosa che feci. Ma prima di ritrovare una nuova posizione salii proprio sul cucuzzolo dell’amico Epopo (così Plinio il Vecchio, nella sua Storia Naturale, chiama il nostro Epomeo) e, seduto proprio sull’ultima pietra, godetti di uno spettacolo difficile a descriversi. Nel silenzio più totale e tra i profumi delle essenze vegetali che mi tenevano compagnia, si scorgevano le luci tremule di Capri a levante e Ventotene a ponente, poi la costa da Gaeta a Mondragone fino ai Campi Flegrei, il faro di Miseno e poi un tappeto di luci, quello della costa Partenopea, che andava sfumando a mano a mano che l’occhio si allungava verso le due torri… quella del Greco e l’altra dell’Annunziata. Ischia ai miei piedi brulicava di luci stroboscopiche, traiettorie di auto disegnavano improbabili scie luminose sotto la presenza vigile dei fari dell’Imperatore e del Castello mentre i faretti rossi e verdi dei vari porticcioli rallegravano la scena. “Che meraviglia” bisbigliarono due signore che mi avevano raggiunto e che, conoscendo la mia arte affabulatrice, mi solleticavano con varie domande a spiegare questo e quello. Ho sciorinato tutto il repertorio in mio possesso, partendo dall’’horst’ vulcanico-tettonico di Rittman, fino ad arrivare ai giorni nostri ed infilando nel racconto una serie di perle storiche, geologiche, letterarie, poetiche, aneddotiche, geografiche, e di tradizione popolare, tanto che ho tenuto, per molto tempo, a bocca aperta le due cortesi amiche che alla fine del lungo pellegrinaggio storico hanno sospirato “Peccato che gli altri non abbiano ascoltato questo pozzo di scienza”. Insomma non proprio così, ma quasi. I chiarori antelucani, quelli che annunciano l’alba, facevano il loro ingresso sul proscenio con la loro bambagia lattiginosa, un pulviscolo appena appena percettibile sembrava levarsi dall’orizzonte di levante. “Ci siamo -gridai- venite su”. La comitiva si formò subito e come d’incanto, spuntarono decine di apparecchi fotografici. Non v’era tempo per commenti, tutti erano presi, quasi come immersi in quello spettacolo naturale. Calò un incredibile silenzio segno che l’Umano tendeva le braccia al Divino. I chiarori lasciavano il passo alle prime luci ed ai colori che l’alba recava con sé. Il grigio sfumato si metteva da parte per un rosa pallido che diveniva sempre più carico fino a divenire rosso fuoco: erano le avanguardie banditrici del nuovo giorno. E poi lui il principe atteso, all’inizio un po’ neghittoso ma poi sempre più spavaldo, a mostrare per intero le sue nudità. Il tepore dei suoi raggi, che scacciavano dalle nostre membra quella patina di umido che si era accumulata nella notte, mi portarono alla mente la carta intestata di quel nobile napoletano che a piè pagina ed in oro aveva stampato il suo credo: ‘O sole è bello, ‘o sole’… La poeticità del momento fu interrotta da uno che sospirò ‘quanto pagherei per un caffè bollente’… Franco, con la sua bella voce tenorile, mise tutti d’accordo attaccando: ‘ncoppa a Santu Nicole è ‘na bellezza oinè’ ed il coro inaspettatamente ‘e quanno spont ‘o sole so ccose ‘a stravedè’…